La politica moderna tra scetticismo e fede costituisce una acuta e originale dissertazione sul significato del governare e dell’essere governati, e verte sull’identificazione di due stili fondamentalmente contrapposti di concepire il senso dell’attività di governo: la politica della fede da un lato e la politica dello scetticismo dall’altro. Sarebbero queste, secondo l’autore, le due concezioni seminali alla base dello sviluppo adattivo del pensiero politico moderno. La politica della fede sopravvaluta le possibilità dell’agire umano, ravvisando nel governo il mezzo eletto per progettare, controllare e perfezionare l’esistenza dell’uomo. I suoi sostenitori concepiscono lo Stato come un dispensatore necessario di beni e servizi fondamentali per garantire prosperità, abbondanza e benessere e la legge come uno strumento indefettibile per il conseguimento dei fini ultimi. La politica dello scetticismo, al contrario, è convinta che l’esperienza umana sia così multiforme e complessa nelle sue possibilità che nessun piano congegnato a tavolino potrà mai inglobarla e indirizzarla. I suoi fautori intendono lo Stato come un arbitro avveduto che deve amministrare e far osservare le regole del gioco e la legge come condizione fondamentale per consentire l’esercizio delle scelte individuali. Trovare un medio tra i due estremi risulta, quindi, di fondamentale importanza perché è qui che gli uomini si ritrovano a navigare in un «mare sconfinato e senza fondo… e l’impresa consiste nel mantenersi a galla senza squilibrare la nave».