Il liberalismo, sorto come una giustificazione teorica della necessità della limitazione del potere statale, sottolinea il valore positivo della libertà individuale e l’autonomia del singolo, ma secondo Domenico Losurdo, uno dei maggiori studiosi marxisti italiani, non è riuscito a declinare in termini universalistici il suo discorso ideologico. Egli svolge quindi una critica di tipo storico al liberalismo, accusando di incoerenza i suoi maggiori esponenti: Locke, Hutcheson, Smith, Jefferson, Bentham, Calhoun, Acton, Tocqueville, Gladstone, Mill, Spencer e altri autori liberali hanno infatti tollerato, o giustificato con argomenti tratti dal darwinismo sociale, la schiavitù, il dominio coloniale sulle popolazioni di colore, la reclusione forzata dei poveri nelle case di lavoro o l’arruolamento forzato degli indigenti nella marina e nell’esercito. La storia dei paesi in cui il liberalismo ha gettato radici più profonde, come l’Inghilterra e gli Stati Uniti, risulta quindi inestricabilmente intrecciata con la storia della schiavitù e dello sfruttamento. La Prima guerra mondiale, a detta dell’autore, non ha interrotto bruscamente la belle époque liberale, perché non vi è rottura, ma una stretta continuità tra il XIX e il XX secolo. Il totalitarismo novecentesco, secondo Losurdo, trova infatti la sua origine nelle pratiche di governo coloniale di fine Ottocento.