Lo storico tedesco Götz Aly indaga a fondo sulle ragioni che spinsero i tedeschi ad assassinare milioni di ebrei tra il 1933 e il 1945, arrivando a delle risposte scomode e inquietanti, ma documentate e convincenti. Tutto cominciò all’inizio dell’Ottocento, quando per iniziativa dei governi illuminati, ma contro i desideri del popolo tedesco, gli ebrei ottennero l’emancipazione giuridica. Nei cent’anni successivi, gli ebrei della Germania seppero cogliere le opportunità offerte dalla nuova libertà economica, riversandosi nelle professioni allora emergenti: divennero commercianti, imprenditori, medici, avvocati, banchieri e giornalisti di successo. Inoltre, garantirono ai propri figli un’istruzione di buon livello: intorno al 1900, in Germania, gli studenti ebrei che conseguivano la maturità erano otto volte di più dei loro compagni cristiani, mentre i redditi degli ebrei erano mediamente cinque volte più alti di quelli dei cristiani. La reazione dei tedeschi, più lenti nella loro ascesa sociale, fu caratterizzata da livore, risentimento e gelosia. Invece di emulare gli ebrei a livello individuale, chiesero allo Stato di proteggere i cristiani, cercarono appoggio e conforto nella collettività, e tentarono di accrescere la loro autostima denigrando la razza e la cultura di chi si era dimostrato superiore a loro. Alla base psicologica dell’Olocausto ci fu quindi l’invidia, un peccato capitale che, come mette in luce l’autore, fu diffuso a piene mani non solo dai movimenti antisemiti, ma anche da quelli socialisti.