Razionalismo in politica è un celeberrimo saggio del 1962, che contribuì a dare notorietà a Michael Oakeshott, elevandolo fra i principali filosofi politici del Novecento. In esso, il filosofo inglese si propone di sottoporre a stringente critica il potere di una ragione umana “sregolata”, che nel corso del XX secolo è stata foriera di una cascata ininterrotta di sciagure e di conseguenze devastanti. Il tentativo di pervertire l’uso della ragione, che si arroga la capacità di potersi auto-rifondare e di avanzare in una sorta di vuoto pneumatico avulso da qualsiasi autorità e tradizione, viene così identificato come il male del razionalismo politico moderno. Rifiutando di riconoscere che, per sua natura, la conoscenza è frammentata e dispersa tra miliardi di individui interagenti, il razionalista presume di poter fare assoluto affidamento sui celebrati poteri della conoscenza tecnico-scientifica, svilendo costantemente il ruolo della conoscenza pratica. Ossessionato dalla “politica della perfezione” e dalla sua applicazione uniforme, egli ambisce a instaurare il Paradiso in terra e, in taluni casi, a forgiare l’Uomo nuovo. Questo orientamento, tuttavia, non solo spalanca le porte a un’espansione incontrollata dei poteri pubblici, nella loro qualità di soggetti incaricati di realizzare i grandi progetti di riforma, ma distrugge anche gli elementi poetici e creativi che contraddistinguono la dimensione dell’esperienza umana concreta.